Hindī, Hindū, Hindusthān: Standardizzazione della Hindī Moderna nel discorso nazionalista indiano tra Ottocento e Novecento (di Orsola Risato)
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La hindī, stando alle statistiche, è al giorno d'oggi la quinta lingua al mondo per numero di parlanti [1]. Nel considerare questi dati è necessario tenere presente in primis che, ogniqualvolta si parli di hindī, si intende la sua variante standard moderna, riconosciuta come prima lingua ufficiale dalla Costituzione Indiana ed effettivamente utilizzata in pressoché tutta l'India settentrionale [2]. Nonostante questa classificazione suggerisca una fascia linguistica omogenea, siamo di fronte, piuttosto, ad una zona in cui la hindī, come lingua franca distinta dalle parlate locali, ha rivestito in determinati momenti storici un ruolo di prestigio nell'ambiente colto (anche anglofono, in periodo coloniale), e che tuttora mantiene a livello letterario peculiarità che la distinguono dalle varianti ragionali.
Il secondo elemento a cui prestare attenzione, nel momento in cui si parla di hindī, è l'esistenza di quella che viene spesso descritta come "lingua gemella", ossia la urdū. Il discorso su di esse come due lingue distinte è relativamente recente: si tratta di due varianti purificate di una lingua franca che affonda le sue radici nella parlate locali dell’India nord-occidentale, in particolare dei territori odierni di Pañjāb e Uttar Pradeś, e che è identificata con il nome di hindustānī, soprattutto nel periodo compreso tra XVII e XVIII secolo. La hindustānī era così definita dalle autorità inglesi stesse, per contrapporre la parlata "indiana", ricca di termini e costruzioni di varia derivazione linguistica, al persiano, lingua dell'amministrazione dal XVI secolo e mantenuta tale dall'East India Company nel 1757, anno in cui la compagnia afferma il proprio potere anche politico in India. Nel 1837 il persiano sarà sostituito proprio da questa parlata locale, che si chiamerà appunto hindustānī o urdū. Per arrivare a parlare di hindī bisognerà entrare nelle dinamiche di epurazione e di ideologia nazionale tipiche dei decenni a cavallo dell'Indipendenza: urdū e hindī incarneranno rispettivamente l'ideologia islamica e hindū, andando a definirsi ciascuna nei propri caratteri specificamente arabo-persiani da un lato, sanscriti dall'altra [3]. La maggiore diversità tra le due lingue odierne, esito ultimo della standardizzazione, è l'utilizzo di due sistemi di scrittura diversi: nel caso dell'urdū l'alfabeto arabo-persiano nello stile nastaʿlīq, nel caso della hindī l'alfabeto sanscrito in calligrafia devanāgarī.
La vicenda di diversificazione tra le due lingue in questione è assai complessa e si pone in maniera problematica già dai primi anni del novecento: in nuce, si parla di hindī e urdū già nel Linguistic Survey of India, monumentale opera di classificazione delle lingue del subcontinente realizzata da George Abraham Grierson tra il 1903 e il 1928. Ai fini del presente lavoro, tuttavia, non ci si vuole soffermare sulla storia dell'evoluzione di tali lingue, bensì sul processo di standardizzazione della hindī moderna avvenuto tra fine Ottocento e primi del Novecento. Il focus vuole essere sulle implicazioni ideologiche e nazionalistiche di tale sviluppo, e su come esse si concretizzino nelle scelte governative riguardo istruzione, editoria e letteratura. Si osserverà quindi come la standardizzazione di una variante linguistica, in questo caso la hindī appunto, passi per la realizzazione di grammatiche ad hoc, descrittive o prescrittive, e come tali testi siano in grado di plasmare l'approccio del parlante e dello studioso alla lingua stessa. Alcuni storici della letteratura e della tradizione grammaticale hindī sottolineano come la composizione di grammatiche sia estranea alla tradizione di tale lingua e sia, di fatto, un'importazione anglosassone:
«[...] hindi grammar is a by-product of the colonial era and was born shortly after the arrival of Europeans in India [...], e ancora [...] it is clear that the Hindi grammatical tradition is primarly alien in origin, alien in the sense that its founders were not natives of India nor did they share the conception of grammar laid down by Indian grammarians [...]»
(Bhatia 1987: 11, 15).
Bhatia, in questi passi, si riferisce principalmente all'opera di John B. Gilchrist, insegnante di persiano e hindustanī presso il Fort William College dall'anno di fondazione, 1800, al 1804. È senz'altro vero che le grammatiche di hindustanī come seconda lingua, destinate agli ufficiali della British East India Company, sono frutto di una tradizione "straniera" rispetto al subcontinente. Del resto, il fatto stesso che abbiano una funzione didattica ai fini pratici di amministrare del territorio implica che siano scritte da stranieri per stranieri, con intenti, di fondo, colonialistici. Ma la tradizione grammaticale che ci appare qui più interessante è quella, sviluppatasi appunto alla fine dell'Ottocento, di grammatiche della hindī (nota bene: non più hindustanī, dunque lavori come quello di Gilchrist vanno considerati in un contesto a sé stante) scritte in hindī da autori hindū per un pubblico di varia estrazione: si tratta di una tendenza nuova, assolutamente "indigena" diretta ad affermare un primato nazionale non tanto, e non più, sull'oppressore britannico, ma sulla comunità "straniera in casa propria", ossia quella islamica.
Il subcontinente indiano diviene a tutti gli effetti colonia dell'Impero Britannico a partire dal 1858, quando, con quello che è noto come Government of India Act (1858), il potere sul territorio passa dalle mani dell'East India Company direttamente alla regina Vittoria, incoronata Imperatrice delle Indie nel 1877. L'impatto dell'amministrazione britannica sul sistema di amministrazione e istruzione implica grossi cambiamenti soprattutto nel territorio delle cosiddette Province Unite (territori corrispondenti grossomodo all'odierno Uttar Pradeś e Uttarkhand): la scolarizzazione interessa qui soprattutto la vecchia classe dirigente musulmana, ed è qui che si sente più forte il disagio di definirsi hindū pur condividendo un retaggio letterario e culturale urdū, e quindi islamico [4]. È in questo contesto che si va a collocare l'inizio della controversia hindī-urdū.
Uno dei primi promotori della nāgarī hindī è considerato essere Śiv Prasād Siṁh: quasi un ventennio prima di divenire membro dell'Indian Educational Service [5], egli compone nel 1868 due memorandum sulla questione hindī-urdū. Se nel primo egli si dimostra propenso ad ammettere l'esistenza di un solo volgare (parliamo di volgare come lingua "indiana" contrapposta al persiano), che si può scrivere indifferentemente secondo la grafia sanscrita o persiana, nel secondo il tono è direttamente anti-musulmano, a favore di una lingua prettamente hindū. Come nota Alessandra Consolaro:
«Il termine hindī viene qui usato per definire tutti i diversi dialetti parlati nel bassopiano gangetico, compreso Bihar, Province Unite, Rajputana [...] Punjab e parte delle Province Centrali, e l'alfabeto hindī include devanāgarī, kaithī e mahājanī»
(Consolaro 2003: 28)
La condanna alla cultura islamica è ancora più evidente nell'opera che sarà adottata come libro di testo nelle Province Unite fino al 1884, Itihās Timirnāśak ("L'Illuminatore della Storia"). Scritto in hindī e successivamente tradotto in inglese e urdū, quindi apparentemente imparziale, questo testo segna innanzitutto un cambio di rotta nella storiografia, finora normalmente appannaggio della lingua arabo-persiana, e attribuisce inoltre alla presenza islamica in India una negatività che, a detta dell'autore, può essere risolta soltanto dall'instaurazione della pace e dell'unità da parte degli Inglesi (Consolaro, ibidem).
Date tali premesse, è interessante a questo punto l'approccio al vero e proprio testo di grammatica composto da Siṁh: si tratta della "Grammatica hindī", Hindī Vyākaraṇa, pubblicata ad Allahabad nel 1875 con il titolo bilingue hindī-inglese. Come nota Bhatia (1987: 119-122), l'autore tenta in questo lavoro una sintesi della grammatica hindī-urdū, dal momento che a suo parere l'insegnamento di queste lingue tramite diversi alfabeti e diverse impostazioni grammaticali è controproducente all'interno del sistema scolastico: separare le due varianti non ne mette adeguatamente in evidenza l'origine indo-europea e porta ad utilizzare termini tecnici che non sono mutualmente intellegibili. Siṁh introduce dunque una sorta di sistema di testo a fronte, in caratteri hindī e urdū, privilegiando rispettivamente termini sanscriti e persiani raccolti poi in tavole esplicative. Il testo segue fedelmente la tradizione grammaticale sanscrita, sviluppandosi tramite aforismi, relativi commenti e spiegazioni, infine esempi; tuttavia, nell'analisi dei verbi, è adottato il sistema classificatorio inaugurato da autori inglesi di grammatiche hindī e spesso i termini tecnici sono coniati dal registro hindī parlato, che di fatto è perfettamente sovrapponibile all'urdū. In questo senso la composizione di tale opera potrebbe risultare contraddittoria: non solo non si esprime il primato della lingua degli hindū sull'altra, ma addirittura si coniano termini a partire dal vernacolare e si classifica il tutto seguendo sia il sistema sanscrito, sia quello inglese. Vedremo in seguito come si tratti in realtà di elementi presenti, e coesistenti, in altre grammatiche composti dagli autori "partigiani" della nāgarī hindī.
Nello stesso anno della pubblicazione della suddetta grammatica, il 1875, viene dato alle stampe un altro breve testo di carattere grammaticale, la Prathama Hindī Vyākaraṇa ("Prima grammatica hindī") di Bhārtendu Hariścandra. Questo autore sottolinea l'importanza della lingua volgare domestica, in contrapposizione al persiano e all'inglese, ed evidenzia il legame tra hindī e identità hindū:
«Progress in one’s language is the source of all progress; if you know not your own language your heart cannot be pure»
(Bhārtendu Samagra, p. 228, tratto da Orsini, 2002).
Tra gli autori che scriveranno grammatiche su modello di Śiv Prasād Siṁh, è importante ricordare Śyāmsundar Dās (1875 – 1945), soprattutto per il ruolo che egli ricoprirà all'interno della Kāśī Nāgarīpracāriṇī Sabhā. Tale associazione, fondata a Vārāṇasī nel 1893, è uno dei principali luoghi di sviluppo, incentivo e diffusione della lingua hindī "sanscritizzata", insieme alla Banaras Hindū University (BHU), all'interno della quale il primo insegnante del dipartimento di hindī sarà proprio lo stesso Śyāmsundar Dās [6]. Dalla dichiarazione d'intenti della Sabhā notiamo subito, chiaramente, la linea ideologica perseguita:
«The chief duty of members of this Sabha will be to learn the Nagari language, to use the same language in conversation and correspondence, and to advance its cause among the circle of their friends. Members of this Sabha will translate books from other languages into the Nagari language themselves, or have others to translate them. Members of this Sabha will frequently write articles on the subject of the progress of the Hindi language for publication in Hindi newspapers»
(Orsini 2002)
Ad incentivo della nāgarī hindī, l'associazione istituisce premi letterari, offre patrocinio ad autori e dal 1910 stila annualmente una lista dei migliori libri pubblicati: si tratterà, chiaramente, di testi scritti secondo i dettami della lingua "purificata". Ma soprattutto, se l'intento è creare uno standard per la nuova nāgarī hindī, i due punti cardine per raggiungere l'obiettivo sono l'elaborazione di un dizionario e la stesura di una grammatica: è proprio su questo che le forze dell'associazione saranno maggiormente concentrate.
Nel 1908 viene pubblicato un glossario di termini scientifici, realizzato nell'arco di otto anni da un comitato cui partecipa, ancora una volta, Śyāmsundar Dās. Tale opera è redatta principalmente con lo scopo di sostituire ai termini scientifici inglesi i rispettivi hindī, e di poterli inserire nei testi scolastici pubblicati per conto della Sabhā (Consolaro 2003: 185). Visto il successo di questo primo lavoro, l'associazione si impegna nell'impresa più dispendiosa, a livello intellettuale ed economico, da essa realizzata: la redazione di un dizionario monolingue hindī onnicomprensivo. L'opera, iniziata nel 1908, viene pubblicata nel 1929 con il titolo di Hindī Śabdasāgar, "Oceano delle parole hindī". Śyāmsundar Dās è a capo del comitato scientifico permanente per la realizzazione del dizionario, affiancato da Rāmcandra Śukla, all'epoca suo collega e autorità scientifica presso il dipartimento di hindī della BHU [7]. Il materiale lessicale è ricavato da circa duecento testi in prosa e in poesia, oltre che da ricerche sul campo volte a registrare le forme colloquiali (Consolaro, ibidem).
Il secondo punto focale, ossia la stesura di una grammatica, viene affidato nel 1915 a Kāmtā Prasād Guru. Tale opera, dal titolo esaustivo di "Grammatica Hindī", Hindī Vyākaraṇa, si pone come punto conclusivo nell'ambito delle problematiche legate alla controversia hindī-urdū, dal momento che è commissionata con il preciso intento di stabilire definitivamente cosa sia la hindī e come vada usata, con duplice approccio quindi, descrittivo e prescrittivo. Teniamo presente il contesto ideologico in cui questo testo viene elaborato, in un momento storico in cui il nazionalismo legato alla nāgarī hindī è forte più che mai: nel 1910 si tiene infatti a Vārāṇasī la prima assemblea della Società per la Letteratura Hindī, lo Hindī Sāhitya Sammelan, il cui obiettivo è definire la "buona" hindī, sbarazzarsi del termine hindustānī (che a detta del presidente, Madan Mohan Malaviya, solo gli Inglesi si ostinano ad utilizzare) e purificare la più bella tra le figlie del sanscrito (Consolaro 2003: 155). Guru, già autore di diversi testi didattici a carattere linguistico, viene identificato dalla Kāśī Nāgarīpracāriṇī Sabhā come potenziale grammatico grazie ad alcuni suoi articoli comparsi sulla rivista letteraria Sarasvatī [8], dedicati ciascuno a differenti aspetti della grammatica hindī. Come osserva Bhatia, l'autore ha grande padronanza della letteratura grammaticale non solo hindī, ma anche inglese e marāthī, tanto da dare al proprio lavoro un "non-puritan approach" (Bhatia 1987: 180). Nell'introduzione stessa, Guru afferma di essersi ispirato a grammatici contemporanei inglesi per l'impostazione strettamente formale del proprio lavoro, e più precisamente nella classificazione delle otto parti del discorso e nei termini tecnici utilizzati per l'analisi logica.
Procediamo quindi ad una breve analisi del lavoro di Guru (Guru, 1978).
Nell'introduzione l'autore, dopo aver espresso la propria adesione alla Sabhā e ai suoi principi, passa ad esporre la propria dichiarazione d'intenti e, come già notato, dichiara esplicitamente che «questa grammatica è stata scritta per la maggior parte sullo stile delle grammatiche inglesi », e ancora che «il motivo principale sta nel fatto che in hindī è già stato usato questo sistema in passato e che fino ad oggi nessun autore ha presentato un modello del tutto ideale del sistema sanscrito» [9]. Notiamo dunque che si ripresenta, qui in maniera del tutto esplicita, il problema già riscontrato nella grammatica di Śiv Prasād Siṁh: dato l'intento di standardizzare una hindī purificata di tutti gli elementi "estranei", non è forse un'incongruenza utilizzare l'impostazione inglese, seppure solo per praticità? Una risposta potrebbe stare nel fatto che l'epurazione da tutto ciò che è considerato "non hindū" interessa primariamente, e ideologicamente, solo la parte urdū, islamica. Anzi, se ritorniamo sulle parole di Siṁh nell'Itihās Timirnāśak, gli Inglesi sono detentori del progresso e della modernità, dell'ordine e delle novità scientifiche che, soli, possono riportare l'India all'antico splendore abbattuto dagli "invasori musulmani". Volendo azzardare e spingersi ad un secondo livello di analisi, il calco dei modelli inglesi potrebbe essere, oltre che un indubbio ricorso alla praticità rispetto all'impostazione sanscrita di difficile divulgazione, una sorta di captatio benevolentiae nei confronti della nuova élite governativa: nonostante i fervori indipendentisti di questo periodo, la necessità di dimostrare la legittimità del legame Nazione-lingua hindī ha, nel contesto delle Province Unite, il sopravvento. Riuscire a produrre un testo autorevole, di facile consultazione e di rigore scientifico, al passo con i dettami letterari occidentali moderni, che possa essere riconosciuto e diffusamente utilizzato anche dalla classe dirigente inglese, rappresenterebbe una vittoria schiacciante sulla variante urdū, ormai ridotta a retaggio del passato islamico e relegata ad una dimensione popolare, quasi folkloristica.
Nel primo capitolo del testo vero e proprio, Guru si adegua invece ad una procedura tipica delle grammatiche tradizionali sanscrite [10], ossia la dissertazione sul significato di lingua, sull'uso e utilità della lingua e sul significato di grammatica:
«La lingua è quello strumento attraverso il quale l'uomo può esprimere in modo appropriato i propri pensieri agli altri, e capire chiaramente i pensieri degli altri [...] La lingua non rimane stabile; in essa avvengono continui cambiamenti»
(Guru 1978: 1).
«Si chiama grammatica quel campo in cui avviene la descrizione della forma pura delle parole e delle regole d'uso [...] La grammatica è sottoposta alla lingua e continua a cambiare secondo il corso della lingua»
(Guru, 1978: 3).
L'autore sottolinea come non sia indispensabile studiare la grammatica per leggere e parlare correttamente, e come la conoscenza della grammatica non assicuri queste abilità (ricordiamo che stiamo analizzando una grammatica in lingua madre): essa è tuttavia indispensabile per una comprensione completa della lingua, dei suoi meccanismi e della sua evoluzione, e per distinguerne le forme pure da quelle popolari.
Segue una breve storia della lingua, redatta a partire dall'origine indo-aria, passando per il sanscrito, i pracriti medievali e giungendo infine alla questione hindī-urdū. Qui l'autore affronta e commenta le varie posizioni assunte da intellettuali, semplici parlanti e letterati: chi parla di una sola lingua, chi associa lingua a religione, chi parla di hindustānī intendendo urdū e chi intendendohHindī. La prima conclusione cui giunge Guru è che «il più antico nome della nostra lingua è semplicemente "bhaṣā", lingua» (Guru 1987: 14). Notiamo come l'enfasi sia sul senso di identità collettiva. Di seguito sono elencati i diversi nomi con cui, all'epoca, viene definita la hindī, e sono riportate tabelle etimologiche con elenchi di parole "straniere", videśī. Lo scopo dell'autore è dimostrare che, al di là dei diversi nomi con cui viene identificata, la lingua hindī autentica è una sola e possiede determinate caratteristiche. A partire dai capitoli seguenti, infatti, egli procede con l'analisi delle singole parti del discorso: nomi, pronomi, caratterizzanti dei nomi (ossi aggettivi), verbi, caratterizzanti dei verbi (avverbi), preposizioni, congiunzioni e interiezioni.
Da questa breve analisi si può capire come la grammatica di Guru sia effettivamente un testo accurato, articolato e completo, al punto che, al di là di ogni implicazione ideologica, a tutt'oggi essa rimane uno dei testi più autorevoli per gli studi grammaticali e linguistici sulla hindī.
Avviandoci verso la fine di questo excursus sulla standardizzazione della hindī moderna, rimangono da citare almeno due grammatiche interessanti in questo senso: Vākya viśleśaṇa ("Analisi della frase") di Paṇdit Jangabahādur Miśra, 1930 e Acchī hindī ("La buona hindī") di Ācārya Rām Chandra Varmā, 1944. Un ventennio dopo la pubblicazione della Hindī Vyākaraṇa di Guru, è ormai data per chiara la divisione tra hindī e urdū. L'Indipendenza dell'India è vicina, e con essa si acuiscono le rivalità tra comunità hindū e comunità musulmana, soprattutto nelle aree Nord-orientali e Nord-occidentali del Paese. Le due grammatiche in questione procedono alla descrizione della hindī dando per assodato che si tratti di una lingua quasi definitivamente formata.
La prima è un'opera notevolmente originale, in quanto tratta specificamente la sintassi: le frasi sono divise in categorie a seconda della loro "forma", che è identificata come semplice, composta o coordinata, e "funzione" (interrogativa, esclamativa, ecc.).
La seconda, come si evince dal nome, è una grammatica puramente prescrittiva: il discorso è impostato a partire da diverse tipologie di errore in cui può incorrere il parlante. Avremo quindi errori nella formazione ideale (ossia errori nella formulazione stessa del pensiero), errori semantici, connotativi e fonetici, errori nella scelta lessicale, errori sintattici, errori nell’uso di verbi, errori nel genere e nel numero, espressioni opache o ambigue, errori miscellanei ed infine, categoria alquanto fumosa, errori nell'esprimere un bisogno (Bhatia 1987: 183-185).
A seguito dell'Indipendenza, ottenuta dall'India tra il 14 e il 15 agosto 1947, e della contestuale Partition dal Pakistan, hindī e urdū assurgono definitivamente a status di lingue ufficiali dell'uno e dell'altro stato. Si giunge così alla definitiva associazione ideologica tra lingua e nazione, che rimane tuttora discussa e problematica per il subcontinente indiano come per il resto del mondo. Nell'Unione Indiana si profilerà una nuova questione, riguardante questa volta il ruolo di hindī e inglese a livello amministrativo e culturale, ma l'argomento non può certo essere risolto in poche righe in modo collaterale al tema del presente lavoro. Come input per affrontare la questione, tuttavia, pare opportuno ricordare la posizione della Costituzione Indiana [11], in vigore dal 29 gennaio 1950, circa il ruolo e le caratteristiche della hindī:
Article 343 (1)
"The official language of the Union shall be Hindi in Devanagari script. The form of numerals to be used for the official purposes of the Union shall be the international form of Indian numerals."
Article 343 (2)
"Notwithstanding anything in clause (1), for a period of fifteen years from the commencement of this Constitution, the English language shall continue to be used for all the official purposes of the Union for which it was being used immediately before such commencement"
Article 351
"It shall be the duty of the Union to promote the spread of the Hindi language, to develop it so that it may serve as a medium of expression for all the elements of the composite culture of India and to secure its enrichment by assimilating without interfering with its genius, the forms, style and expressions used in Hindustani and in the other languages of India specified in the Eighth Schedule, and by drawing, wherever necessary or desirable, for its vocabulary, primarily on Sanskrit and secondarily on other languages."
Come primo passo per la promozione e la diffusione della lingua hindī, nel 1954 il Governo indiano istituisce un comitato per la realizzazione di una grammatica ufficiale. L'esito sarà l'opera di Āryendra Śarmā, pubblicata nel 1958, "A Basic Grammar of Modern Hindi". Il testo, in inglese, nasce con l'intento di distaccarsi definitivamente dalle grammatiche tradizionali ricalcate su quelle delle lingue classiche, per proporre un approccio moderno e indipendente, di fatto in linea con le tendenze occidentali (Bhatia 1987: 197). La grammatica dimostra, ancora una volta, di essere uno dei mezzi più efficaci per plasmare i comportamenti sociali dei parlanti, e per indirizzare la nazione sulla via ideologica più consona all'epoca storica.
BIBLIOGRAFIA
Bhatia, Tej K, 1987, A History of the Hindi Grammatical Tradition: Hindi-Hindustani Grammars, Grammarians, History and Problems. New York: E. J. Brill.
Consolaro, Alessandra, 2003, Madre India e la parola: la lingua hindī nelle università nazionali di Vārāṇasi. Alessandria: Edizioni dell'Orso.
Guru, Kāmtāprasād, 1978, Hindī Vyākaraṇa. Vārāṇasī: Nāgarīpracāriṇī Sabhā. (12th edn.)
Orsini, Francesca, 2002, The Hindi Public Sphere 1920-1940. Oxford: Oxford University Press.
NOTE
[1] https://www.ethnologue.com/statistics/size
[2] Per una classificazione delle lingue neo-indo-arie secondo la tassonomia tradizionale, si veda M.C. Saphiro e H.F. Schiffman, Language and Society in South Asia, Motilal Banarasidass, Delhi 1981.
[3] Alla fine del XIX secolo, l'identità hindū implicava possedere lingua, letteratura, religione e territorio comune: di qui il motto nazionalista "Hindī Hindū Hindustān" coniato da Pratāpnārāyaṇ Miśra, personaggio di spicco nel movimento ortodosso del revivalismo hindū (Consolaro 2003: 161).
[4] Teniamo presente che questa area geografica è sede centrale dell'Impero Moghul fino al 1858, e quindi punto focale nella produzione culturale persiana e urdū/hindustānī.
[5] Organizzazione amministrativa fondata nel 1886, ad opera del British Raj, con il compito di sovrintendere l'educazione e la scolarizzazione della futura classe dirigente, composta da britannici ma anche, elemento molto importante, da giovani indiani. Una volta istruiti secondo i dettami del governo britannico, essi sarebbero stati la pedina vincente per il controllo del territorio.
[6] La BHU viene fondata nel febbraio 1916 a Vārāṇasī, con l'intento di fornire un'istruzione a tutto tondo basata sul dharma hindū. Le facoltà originarie sono Lettere, Scienze, Giurisprudenza, Orientalistica e Teologia. Il Dipartimento di hindī viene istituito solo nel 1922: fino ad allora, la lingua veicolare nell'ateneo era l'inglese.
[7] Śukla è inoltre autore di una importante "Storia della letteratura hindī" (Hindī sāhitya kā itihās), impostata su una critica letteraria commista di elementi indiani e occidentali e fortemente influenzata dall'idealismo crociano. Egli adatta il pensiero di Croce su vita sociale e cultura al contesto indiano: i valori borghesi di religiosità, senso della famiglia e dedizione al lavoro vengono identificati come essenziali per riprodurre i meccanismi sociali del passato glorioso indiano (Consolaro 2003: 209-211).
[8] Fondata nel 1900 ad Allahabad, con lo scopo di fondare una nuova letteratura nel rispetto di precise regole stilistiche, sintattiche e ortografiche.
[9] Da qui in avanti la traduzione dall'originale hindī di Guru, laddove non diversamente indicato, è di prima mano.
[10] Ci riferiamo qui alle opere di Pāṇini, Kātyāyana e Patañjali.